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Lavoro a termine: 60 giorni in più per impugnare il contratto

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Il decreto Dignità, nel modificare la disciplina del contratto a termine, è intervenuto anche sulla decadenza dell’azione di impugnazione del contratto, che deve ora avvenire entro 180 giorni dalla cessazione del singolo contratto e non più entro 120 giorni come precedentemente disposto dal Jobs Act (articolo 28 del D. Lgs. n. 81/2015).

Ai fini procedurali la legge n. 96/2018 rinvia alla disciplina di cui all’articolo 6 della legge 15 luglio 1966, n. 604, pertanto per la validità dell’impugnazione occorre un atto idoneo a manifestare la volontà del lavoratore anche attraverso l’intervento dell’organizzazione sindacale diretto ad impugnare il termine applicato al contratto.

Per il disposto del primo comma del richiamato art.6, l’impugnazione è inefficace se non è seguita, entro il successivo termine di 180 giorni, dal deposito del ricorso nella cancelleria del tribunale in funzione di giudice del lavoro o dalla comunicazione alla controparte della richiesta di tentativo di conciliazione o arbitrato, ferma restando la possibilità di produrre nuovi documenti formatisi dopo il deposito del ricorso. Qualora la conciliazione o l’arbitrato richiesti siano rifiutati o non sia raggiunto l’accordo necessario al relativo espletamento, il ricorso al giudice deve essere depositato a pena di decadenza entro 60 giorni dal rifiuto o dal mancato accordo.

Per espressa previsione normativa si applica altresì il secondo comma del suddetto articolo 6. Pertanto, in caso di trasformazione del contratto a tempo determinato in contratto a tempo indeterminato a causa del termine illegittimamente apposto, il giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento del danno a favore del lavoratore stabilendo un’indennità onnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 e un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto. La predetta indennità ristora per intero il pregiudizio subito dal lavoratore, comprese le conseguenze retributive e contributive relative al periodo compreso tra la scadenza del termine e la pronuncia con la quale il giudice ha ordinato la ricostituzione del rapporto di lavoro.

E’ necessaria grande attenzione all’utilizzo delle causali quando queste siano dovute poiché la tassatività delle ipotesi previste dalla legge 96/2018 non consente grandi spazi di manovra.

Una recente sentenza della Corte di Cassazione che, seppure riferita al previgente D. Lgs. n. 368/2001, è nuovamente di grande attualità. Con la sentenza n. 22188 depositata il 12 settembre 2018 la Suprema Corte afferma, infatti, che ai fini del requisito di specificazione risulta essenziale non solo la precisa e puntuale indicazione delle ragioni determinative dell’assunzione a termine, ma anche la diretta utilizzazione del lavoratore nell’ambito e nelle attività indicate ai fini dell’assunzione.

Nella stipula di un contratto a termine occorre anche valutare con attenzione la possibile durata. Aldilà della facile previsione di non voler superare i 12 mesi per non incorrere nell’obbligo di indicare la causale, è bene ricordare che il termine apposto al contratto impegna le parti ad osservarlo.

Il recesso anticipato unilaterale non debitamente giustificato espone quindi la parte recedente ad una azione risarcitoria che, nel caso sia il datore di lavoro, viene, di solito, quantificata nelle retribuzioni che sarebbero spettate al lavoratore fino alla fine del periodo contrattuale ma potrebbe essere anche maggiore.

(Fonte IPSOA)