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Controllo accessi e presenze: condizioni di legittimità

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Con la modifica dell’articolo 4, dello Statuto dei lavoratori, il legislatore, alla luce dei mutamenti organizzativi derivanti dall’uso delle tecnologie telematiche (personal computers, tablets, smartphone, badge, ecc.) ha cercato di aggiornare le modalità per il loro uso legittimo data la diffusione degli strumenti e la loro versatilità di utilizzo. Restano comunque oneri normativi importanti e fondamentali che incombono sul datore di lavoro come quello di fornire al lavoratore l’adeguata informazione e comunque nel rispetto dei criteri e dei principi della Privacy.

Con la modifica dell’articolo 4, legge n. 300/1970, attuata con l’articolo 23, comma 1, D.Lgs. n. 151/2015, il legislatore, alla luce dei mutamenti organizzativi derivanti dall’uso delle tecnologie telematiche (personal computers, tablets, smartphone, badge, ecc.) ha cercato di aggiornare le modalità per il loro uso legittimo, chiarendo in particolare che la necessità di un preventivo accordo sindacale (o, in mancanza di questo, della preventiva autorizzazione dell’Ispettorato del lavoro) non sussiste per “gli strumenti utilizzati dal lavoratore per rendere la prestazione lavorativa e agli strumenti di registrazione degli accessi e delle presenze”.

L’unico onere che incombe sul datore di lavoro è quello di fornire al lavoratore “adeguata informazione delle modalità d’uso degli strumenti e di effettuazione dei controlli e nel rispetto di quanto disposto dal D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196”.
Ottemperato correttamente a tale onere, il datore di lavoro dovrebbe così poter effettuare su detti strumenti tutti i controlli che ritiene opportuni, utilizzando le informazioni così raccolte “a tutti i fini connessi al rapporto di lavoro”, evidentemente comprese le sanzioni disciplinari. Il presente approfondimento analizza oltre alla normativa di riferimento anche i principali orientamenti del Garante privacy in materia.

(Fonte IPSOA)

Il lavoratore che non accetta la trasformazione del rapporto di lavoro in fulltime non può essere licenziato.

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Il licenziamento di un lavoratore che non accetta di modificare il rapporto di lavoro da part-time a full-time è illegittimo. Tecnicamente, infatti, l’orario di lavoro costituisce un elemento caratterizzante l’esplicazione delle modalità lavorative; per tale motivo un’ eventuale trasformazione deve essere il frutto di una modifica concordata congiuntamente da entrambe le parti. A precisarlo è la Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 10142 depositata il 26 aprile 2018.

Una dipendente veniva licenziata dal datore di lavoro, nota società nel settore del commercio di abbigliamento, in quanto in seguito ad una riorganizzazione aziendale dovuta ad acquisizioni societarie, non aveva accettato la trasformazione del contratto di lavoro da part-time in full-time.

Il provvedimento era immediatamente impugnato, ma il Tribunale ne rigettava le doglianze. La decisione non era confermata in appello; i giudici di secondo grado, infatti, dichiaravano illegittimo il licenziamento disponendo la reintegrazione della lavoratrice, in quanto l’accordo sottoscritto in seguito all’acquisizione aziendale, non prevedeva lo svolgimento delle mansioni in modalità full-time. Inoltre l’assenza di una disciplina convenzionale in materia di orario di lavoro, impone di applicare a tali fattispecie la regola generale del part-time, secondo la quale l’eventuale modifica è sottoposta al consenso dell’interessato. Avverso la predetta sentenza il datore di lavoro proponeva ricorso in Cassazione, per sostenere la legittimità del licenziamento.

La decisione

La Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 10142, depositata il 26 aprile 2018, ha rigettato il ricorso presentato dal datore di lavoro.

In particolare, i giudici di legittimità chiariscono che il licenziamento di un lavoratore disposto solo per la mancata accettazione della trasformazione del proprio orario di lavoro, è illegittimo.

La ragione, prosegue la Corte richiamando un consolidato orientamento in materia, è data dal fatto che la modalità oraria costituisce un elemento altamente qualificante della prestazione di lavoro; per tale motivo, la variazione in aumento oppure in diminuzione del monte ore pattuito rappresenta una novazione oggettiva dell’intesa inizialmente raggiunta che: a) richiede un’approvazione congiunta da entrambe le parti; b)non è desumibile dall’eventuale comportamento tenuto dalle parti in seguito.

La particolarità della fattispecie e la necessità di tutela della parte debole del rapporto di lavoro, hanno indotto il legislatore a prescrivere con il D.lgs 61/2000, poi abrogato e sostituito dal D.lgs 81/2015, una tutela più rafforzata. In particolare con l’art. 5 è stata prevista la necessità di stipulare per iscritto il contratto di lavoro a tempo parziale; mentre con l’art. 8 di ritenere illegittimo il licenziamento adottato in seguito alla mancata accettazione da parte del lavoratore, di effettuare una trasformazione del rapporto part- time nell’opzione full e viceversa.

Nel caso di specie il datore di lavoro disponeva l’interruzione del rapporto di lavoro, proprio in violazione alle predette norme, per ragioni organizzative.

Da qui il rigetto del ricorso.

(Fonte IPSOA)

Licenziamento illegittimo: è risarcitoria e non retributiva l’indennità dovuta dal datore di lavoro

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Il giudice, se non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro, con la sentenza con la quale dichiara la nullità o l’inefficacia del licenziamento illegittimo, condanna il datore di lavoro, oltre alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, anche al pagamento di un’indennità risarcitoria. Tale indennità è commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto ed è dovuta dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione. La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 86 del 23 aprile 2018, ritiene non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori che condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità risarcitoria dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione.

Non è fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 18, quarto comma, dello Statuto dei lavoratori (legge 20 maggio 1970, n. 300), come sostituito dall’art. 1, comma 42, lettera b), della legge Fornero (legge 28 giugno 2012, n. 92) che attribuisce natura risarcitoria, anziché retributiva, alle somme di denaro che il datore di lavoro è tenuto a corrispondere in relazione al periodo intercorrente dalla pronuncia di annullamento del licenziamento e di condanna alla reintegrazione nel posto di lavoro, provvisoriamente esecutiva, fino all’effettiva ripresa dell’attività lavorativa o fino alla pronuncia di riforma della prima sentenza.

Lo ha sancito la Corte Costituzionale con la sentenza n. 86 depositata il 23 aprile 2018, risolvendo il giudizio di legittimità costituzionale promosso dal Tribunale ordinario di Trento, sezione lavoro, con ordinanza del 26 luglio 2016, iscritta al n. 253 del registro ordinanze 2016 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 51, prima serie speciale, dell’anno 2016.

Come la legge Fornero ha modificato lo Statuto dei lavoratori

Il richiamato articolo 1, comma 42, lettera b), della legge 28 giugno 2012, n. 92, nel novellare l’articolo 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300, riferendosi alle ipotesi in cui si accerti che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro, dispone che «[il giudice […] annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione nel posto di lavoro di cui al primo comma e al pagamento di un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, dedotto quanto il lavoratore ha percepito nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative, nonché quanto avrebbe potuto percepire dedicandosi con diligenza alla ricerca di una nuova occupazione».

In ogni caso per l’indennità risarcitoria si assume come misura l’ultima retribuzione globale di fatto e non può essere superiore a 12 mensilità della stessa.

Le argomentazioni dell’Avvocatura Generale dello Stato

Secondo l’Avvocatura Generale dello Stato, nella sua attuale formulazione il quarto comma dell’articolo 18 della legge n. 300/1970, «contempla a carico del datore di lavoro due sole obbligazioni, aventi entrambe natura risarcitoria, alternative tra loro in via di gradata subordinazione, e costituite, la principale, da un facere, la reintegrazione nel posto di lavoro in precedenza occupato dal lavoratore illegittimamente licenziato – risarcimento in forma specifica –, e, la subordinata, da un dare, operante in caso di inadempimento della prima, rappresentato dal pagamento di un’indennità sostitutiva, predeterminata dalla legge nella misura e nella durata – risarcimento per equivalente». Con la conseguenza che, in caso di mancata reintegra, il diritto al risarcimento mediante il pagamento dell’indennità sostitutiva non potrebbe cumularsi, come prospettato dalla difesa della lavoratrice, con il diritto alla retribuzione, che presuppone l’effettivo svolgimento della prestazione lavorativa.

La questione posta dal Tribunale di Trento

L’intervento del Tribunale di Trento sarebbe, secondo la Corte Costituzionale, inteso ad ottenere una pronuncia “sostitutiva”, che sostanzialmente ripristini l’originario contenuto precettivo dell’art. 18 della legge n. 300 del 1970, per il quale il datore di lavoro, non ottemperante all’ordine di reintegrazione, sarebbe inoltre tenuto a corrispondere al lavoratore, per il periodo dalla data stessa di tale provvedimento e fino alla reintegrazione, le retribuzioni dovutegli in virtù del rapporto di lavoro.

La decisione della Consulta

La Corte considera la questione non fondata nel merito. In punta di diritto, la citata disposizione nel prevedere che il datore di lavoro, in caso di inottemperanza all’ordine (immediatamente esecutivo) del giudice, che lo condanni a reintegrare il dipendente nel posto di lavoro, sia tenuto a corrispondergli, in via sostitutiva, una «indennità risarcitoria» – non è “irragionevole”, come sospetta il rimettente, bensì coerente al contesto della fattispecie disciplinata, connotata dalla correlazione di detta indennità ad una condotta contra ius del datore di lavoro e non ad una prestazione di attività lavorativa da parte del dipendente. Nemmeno è violato il primo comma dell’articolo 3 della Costituzione per la disparità di trattamento che deriverebbe tra il datore di lavoro che nelle ore dell’ulteriore giudizio adempia all’ordine di reintegrazione del dipendente e il datore di lavoro che viceversa non vi ottemperi, corrispondendo al lavoratore l’indennità risarcitoria di cui può essere chiesta la ripetizione qualora sia accertata la legittimità del licenziamento. Si tratta, conclude la Corte Costituzionale, “di due situazioni non omogenee e non suscettibili per ciò di entrare in comparazione nell’ottica dell’art. 3 Cost.”.

(Fonte Ipsoa)

Sanzioni INAIL: valida la notifica al solo obbligato in solido

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E’ valida la notifica delle contestazioni di violazione nei confronti del solo obbligato in solido e non anche al trasgressore. Le indicazioni delle Sezioni Unite della Cassazione hanno un importante impatto sulle notifiche operate dall’INAIL per le sanzioni amministrative emesse dall’Istituto che, per le tardate denunce di infortunio e malattia professionale, sono di importi rilevanti. Poiché il pagamento effettuato dall’obbligato in solido libera il trasgressore dall’obbligazione, le SS.UU. ampliano la casistica delle ipotesi in cui l’obbligato può esercitare, nei confronti del trasgressore, l’azione di regresso per la restituzione di quanto pagato. In quali casi è consentita?

La legge n. 689/1981 ha operato la depenalizzazione dei reati contro la pubblica amministrazione, declassandoli a violazione amministrativa. Il declassamento ha “eliminato” l’intervento del giudice nel procedimento di accertamento dell’illecito dal procedimento sanzionatorio.

Contestazione al solo obbligato in solido

La legge n. 689/1981 contiene i principi di legalità che caratterizzano la violazione, individua i soggetti coinvolti e stabilisce rigidamente le fasi della procedura di notifica e riscossione della sanzione amministrativa che ha sostituito la sanzione penale l’oblazione della quale, nella generalità dei casi, comportava l’estinzione del reato. La sentenza n. 22084/2017, Sezioni Unite Civili, si è resa necessaria perché ci sono state pronunce contrastanti da parte, delle Sezioni Ordinarie, in relazione all’autonomia della contestazione di violazione all’obbligato in solido in assenza di analoga notifica operata al trasgressore.

Definizioni

Ai soli fini di chiarezza espositiva si precisa che:

  • Il trasgressore è la persona fisica che, per azione o per omissione, viola la norma (art. 2);
  • L’obbligato in solido è il soggetto, persona fisica o giuridica, in capo al quale è posto l’onere di condividere le conseguenze della violazione con il trasgressore (art. 6).

Un esempio pratico

Violazione commessa dalla persona fisica che rappresenta una società o un qualsiasi soggetto giuridico. Secondo quanto disposto dall’art. 14, la sanzione amministrativa deve essere notificata sia al trasgressore che all’obbligato in solido, entro 90gg dalla data di accertamento della violazione

Il termine di 90 gg è riferito ai residenti nel territorio nazionale. Le notifiche all’estero devono essere effettuate entro i 360 gg.

Il pagamento della sanzione da parte di uno dei due soggetti destinatari estingue il procedimento. Date le premesse di ordine generale, esaminiamo il contenuto della sentenza per la parte relativa agli effetti della notifica rispetto ai destinatari ed alla legittimità del procedimento.

Linee guida delle Sezioni Unite

La sentenza n. 22087 del 18.7.2017 è stata emessa per violazioni relative a transazioni finanziarienon consentite ma le Sezioni Unite hanno inteso pronunciarsi in modo definitivo estendendone la validità a tutti i casi di violazioni amministrative.

Uno dei motivi del ricorso, trattato da una delle Sezioni Ordinarie, è stato rimesso alle SU a causa del contrasto delle pronunce in merito alla sopravvivenza della contestazione ritualmente notificata all’obbligato in solido in assenza di analoga notifica al trasgressore.

In alcune pronunce il difetto di notifica al trasgressore è stato considerato causa di cessazione delle responsabilità dell’obbligato in solido come se quella a carico di quest’ultimo si trattasse di una obbligazione accessoria alla principale. In altre pronunce, al contrario, è stata riconosciuta l’autonomia della contestazione ritualmente effettuata nei confronti del solo obbligato in solido anche se questi non può essere considerato allo stesso livello del trasgressore.

La ricostruzione operata dai magistrati delle Sezioni Unite e molto complessa nei presupposti ma nella sintesi si può riassumere:

  • La Pubblica Amministrazione che rileva la violazione non può scegliere se agire contro una sola delle parti in causa, ma deve agire sia nei confronti del trasgressore, o dei trasgressori, che dell’obbligato in solido come previsto dall’art. 14;
  • Il principio della solidarietà, espresso dall’art. 6, non può ridursi in uno mero strumento al servizio della riscossione della sanzione amministrativa ma evidenzia la necessità di non lasciare impunito un fatto, attivo o omissivo, che ha causato la violazione di una norma. In questo contesto le S.U. ampliano le argomentazioni introducendo il concetto di correità in relazione al fatto che l’obbligato in solido non ha vigilato a sufficienza perché la violazione non si verificasse. Le S.U. non operano nel senso della responsabilità solidale che esiste fra trasgressori, tutti egualmente colpevoli della violazione, ma considerano l’obbligato in solido come un soggetto sul quale gravi l’obbligo pubblicistico che qualcuno sani la lesione dell’ordinamento che ha originato la comminazione della sanzione (a supporto viene citata anche la legge n. 231/2001);
  • In base al procedimento logico sintetizzato, la contestazione della violazione all’obbligato in solido acquista una propria autonomia che non può essere messa in discussione dalla mancata notifica al trasgressore. In via principale le S.U. motivano che la violazione non può restare impunita a causa della decadenza della notifica operata dall’art. 14 che, peraltro, agisce solo nei confronti della persona alla quale non è stata effettuata la notifica nel termine previsto o nei confronti della quale non viene attivata l’esecuzione entro i 5 anni (art. 28) dal giorno in cui è stata commessa la violazione.

Incidentalmente le S.U. hanno affrontato anche la possibilità dell’azione di regresso attivata dall’obbligato nei confronti del trasgressore qualora questi sia deceduto dopo il pagamento della sanzione.

A conclusione del procedimento di formazione della sentenza, ai fini degli effetti della notifica, le S.U. al punto “10” della stessa, stabiliscono che la solidarietà prevista nell’art. 6 assolve anche la funzione pubblicistica di deterrenza generale nei confronti di quanti abbiano interagito con il trasgressore. La necessità di rispondere alla necessità pubblicistica non può essere messa in discussione dalla mancata notifica della contestazione al trasgressore con la conseguenza che la contestazione operata nei confronti dell’obbligato in solido è autonoma e può sopravvivere alle vicende legate al trasgressore stesso. Incidentalmente le S.U. stabiliscono il diritto dell’obbligato all’esercizio dell’azione di regresso poiché a questa, il trasgressore, non può opporre il fatto che il pagamento abbia estinto il suo obbligo nei confronti della pubblica Amministrazione procedente.

Considerazioni finali

Le S.U. hanno eliminato uno dei maggiori problemi connessi alla notifica delle contestazioni di violazione. Infatti non sono infrequenti i casi nei quali il procedimento viene meno per il vizio di notifica dove risulta impossibile notificare la contestazione al trasgressore nei termini di 90gg a causa dell’irreperibilità. L’obbligo di possesso di una casella PEC, posto a carico degli operatori economici, facilità la notifica della contestazione all’obbligato in solido al contrario di quanto avviene per la raccomandata inviata alla residenza del Trasgressore.

Nell’ambito della valutazione degli effetti della sentenza, sarà interessante vedere se questa potrà essere applicata anche nel caso in cui ci sia stato il cambio di legale rappresentante/trasgressore senza che la circostanza sia stata comunicata alla Pubblica Amministrazione che ha rilevato la violazione della norma. In questa ipotesi il trasgressore potrebbe essere diverso da quello che ha commesso la violazione, senza che sia cambiato l’obbligato in solido rappresentato dalla società o ente da questi rappresentato, verso il quale si avrebbe comunque l’autonomia della contestazione.

Nel contesto disegnato si deve inserire l’operato dell’INAIL che emette sanzioni amministrative anche di importi rilevanti per le tardate denunce di infortunio e malattia professionale. La sentenza potrebbe semplificare l’iter di notifica poiché scioglie il legame fra trasgressore ed obbligato in solido anche in funzione del fatto che è sufficiente che il pagamento venga effettuato da una delle due figure.

(Fonte IPSOA)

Illegittimo il licenziamento disposto per una riorganizzazione aziendale

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Il licenziamento di un lavoratore intimato in seguito a ragioni produttive ed organizzative, non adeguatamente supportate dal nesso causale è illegittimo. La nuova pianificazione aziendale, infatti, non incarna di per sé una causa di soppressione dei posti lavorativi, con la conseguenza che, se non adeguatamente sostenuta, determina la caducazione del recesso disposto. A precisarlo è la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 9895 depositata in data 20 aprile 2018

Una società decideva di interrompere il rapporto di lavoro, con due dipendenti adibiti a mansioni di ispettori commerciali, in seguito allo stato di crisi aziendale. In particolare, ai lavoratori era rappresentato lo stato di crisi in ragione del quale l’impresa era costretta a procedere al contenimento dei costi produttivi di gestione mediante una riorganizzazione aziendale, causa della soppressione dei posti. Il provvedimento era immediatamente impugnato. Sia il Tribunale (nella fase di cognizione) sia la corte di appello ritenevano illegittimo il provvedimento dell’’impresa ritenuto irragionevole e non adeguatamente provato.

Avverso la predetta decisione il datore di lavoro ricorreva in Cassazione, per sostenere la fondatezza del licenziamento.

La decisione

La Corte di Cassazione con la sentenza n. 9895, depositata il 20 aprile 2018, ha rigettato il ricorso presentato dalla società datrice di lavoro.

In particolare, i giudici di legittimità chiariscono che il licenziamento per giusta causa, deve essere adeguatamente motivato e supportato da esigenze che rendono improrogabile il protrarsi del rapporto lavorativo. Le cause possono dipendere sia da elementi soggettivi, legati alla condotta del dipendente che ha determinato il venir meno del necessario rapporto di fiducia reciproca; sia da fattori di natura economica attinenti alla crisi aziendale.

Nella seconda ipotesi, prosegue la Corte, le ragioni produttive ed organizzativa del lavoro, di fatto, costituiscono solo una causa del licenziamento e, non integrano la soppressione del posto di lavoro. Tuttavia, secondo i giudici della Corte, non possono essere aprioristicamente escluse da quelle attinenti ad una migliore efficienza produttiva; per tale motivo il giudice di merito è chiamato a verificarne la reale sussistenza e fondatezza, la cui assenza determina l’illegittimità della cessione del rapporto lavorativo.

Nel caso in esame, il licenziamento degli ispettori, derivava in realtà da una riorganizzazione aziendale dovuta allo scarso rendimento di alcune aree, fra le quali quelle di loro competenza.

Da qui il rigetto del ricorso.

(Fonte IPSOA)

Esenzioni fiscali e contributive anche per i lavoratori che convertono il premio di risultato

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Anche i dipendenti che decidono di convertire, in tutto o in parte, il proprio premio di rendimento in beni e servizi nell’ambito di un piano di welfare aziendale possono rappresentare una categoria di dipendenti. Pertanto, l’eventuale beneficio accordato agli stessi può godere appieno delle relative esenzioni fiscali e contributive. E’ quanto ha chiarito l’Agenzia delle Entrate con la circolare n. 5/E/2018. E la conclusione raggiunta dall’Amministrazione non può che essere condivisa. Resta, però, un importante aspetto di interesse da approfondire: il welfare aggiuntivo è connotato da una matrice volontaristica o contrattuale?

La logica di un piano di welfare (sia esso sostitutivo rispetto ad un premio di rendimento, sia aggiuntivo all’ordinario pacchetto retributivo del lavoratore) è di intercettare esenzioni fiscali e contributive che consentano, da un lato, di massimizzare il netto del dipendente incrementando la sua capacità di spesa e, dall’altro lato, di ridurre il costo aziendale.

Tali disposizioni sono essenzialmente contenute nell’art. 51, comma 2 del Tuir; ci si riferisce, ad esempio alle ipotesi di non concorrenza alla formazione del reddito di lavoro dipendente disposte per:

– i servizi di trasporto collettivo e gli abbonamenti al trasporto pubblico (lett. d e d-bis);

– gli oneri di utilità sociale (lett. f)

– le spese di istruzione (lett. f-bis)

– l’assistenza a familiari anziani e non autosufficienti (lett- f-ter).

Le norme sono accomunate dalla circostanza che ai fini dell’ottenimento dell’agevolazione fiscale è necessario che l’erogazione sia posta in essere nei confronti della generalità o di categorie di dipendenti. Proprio sul concetto di categoria è recentemente intervenuta la circolare n. 5/E/2018. Prima di entrare nel merito dei recenti chiarimenti si ritiene utile ricordare brevemente i precedenti pronunciamenti dell’Amministrazione sul tema.

Quando si ravvisa una categoria di dipendenti?

Mancando una definizione puntuale della nozione di “categoria” è necessario, come accennato, fare riferimento alle conclusioni raggiunte dalla prassi amministrativa. Così, nella nota circolare n. 326/E/1997 si è fatto riferimento al concetto di “gruppo omogeneo di dipendenti” con la conseguenza che deve essere escluso dall’esenzione qualsiasi incentivo riconosciuto ad personam. In un ulteriore chiarimento fornito nella circolare n. 188/E/1998 l’Agenzia ha affermato che il termine “non va inteso soltanto con riferimento alle categorie previste nel codice civile (dirigenti, quadri, operai, ecc.), bensì a tutti i dipendenti di un certo tipo(ad esempio, tutti i dirigenti o tutti quelli di un certo livello o di una certa qualifica)” e, nel caso di specie, sono stati considerati come facenti parte di una categoria tutti gli operai del turno di notte. In senso analogo, la risoluzione n. 378/E/2007 ha ritenuto sussistente una categoria anche nel caso dei c.d. expatriates.

I lavoratori che scelgono di convertire il premio rappresentano una categoria?

Tra le principali novità introdotte dalla legge di Stabilità 2016 si rinviene la possibilità accordata al lavoratore di percepire il premio oggetto di detassazione sotto forma monetaria ovvero di “convertirlo” in beni e servizi esenti, in tutto o in parte, da prelievo fiscale e contributivo. Tale facoltà è strettamente correlata alle condizioni previste per l’accesso alla detassazione e, pertanto, lo scambio con il welfare è consentito solo se l’importo corrisposto soddisfa i requisiti previsti per l’applicazione dell’imposta sostitutiva.

Al riguardo, nella prassi adottata da alcune società si ravvisa una particolare strutturazione del premio in caso di conversione in welfare. In particolare (al fine sia di incentivare i lavoratori ad optare per il welfare, sia di far beneficiare gli stessi del risparmio aziendale) nell’ambito dell’accordo aziendale si prevede un ulteriore beneficio per il dipendente che decide di “scambiare” il premio cash con beni e servizi sotto forma di maggiorazione del “pacchetto di spesa” a disposizione.

Ad esempio, fatto 1.000 il premio maturato dal lavoratore si potrebbe disporre che la conversione dello stesso porti ad una spesa in beni e servizi non di 1.000, ma di 1.100.

Il problema che gli operatori del settore si sono posti è se tale importo aggiuntivo possa anch’esso godere delle agevolazioni fiscali e contributive e, con maggior dettaglio, se possa essere rispettata la fondamentale condizione dell’attribuzione del beneficio ad una categoria di lavoratori nel senso sopra indicato.

I recenti chiarimenti

La circolare in commento si è soffermata proprio su tale dubbio confermando in modo espresso che “nel particolare contesto dei premi di risultato agevolabili, può peraltro configurarsi quale categoria di dipendenti l’insieme di lavoratori che avendo convertito, in tutto o in parte, il premio di risultato in welfare ricevono una “quantità” di welfare aggiuntivo rispetto al valore del premio, in ragione del risparmio contributivo di cui a seguito di tale scelta beneficia il datore di lavoro”.

Il chiarimento è in linea con la precedente prassi innanzi esposta e conferma che quello che effettivamente rileva ai fini delle agevolazioni previste per il welfare aziendale è che l’erogazione non nasconda incentivi individuali che non sarebbero, d’altra parte, in linea con lo spirito dei differenti regimi di favore che, non va dimenticato, sono finalizzati per larga parte ad intercettare e promuovere iniziative socio assistenziali a vantaggio della forza lavoro.

Considerazioni finali

La conclusione raggiunta dall’Amministrazione non può che essere condivisa in quanto, di fatto, la maggiorazione di capacità di spesa innanzi indicata può essere a tutti gli effetti qualificata come welfare aggiuntivo.

L’ulteriore tematica che può essere di interesse attiene, poi, alla circostanza se tale welfare aggiuntivo sia connotato da una matrice volontaristica o contrattuale. Come noto, tale evenienza può incidere sulla deducibilità di alcuni costi connessi al Piano (ad esempio sugli oneri di utilità sociale che, ai sensi dell’art. 100, possono scontare un limite di deducibilità del 5 per mille del costo del lavoro).

In realtà, nel caso di specie, ad avviso di chi scrive non viene meno la natura contrattuale dell’erogazione posto che la stessa trova la propria fonte non in una volontà unilaterale da parte dell’azienda, ma all’interno delle pattuizioni declinate nell’accordo di secondo livello.

(Fonte IPSOA)

Abbonamenti trasporto pubblico: detrazione IRPEF e detassazione, a quali condizioni?

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L’utilizzo dei mezzi di trasporto pubblico per recarsi sul luogo di lavoro è incentivato in due modi. Nel primo è consentita la detrazione IRPEF delle spese anche se sostenute per i familiari fiscalmente a carico, detrazione che spetta nel limite complessivo di spesa di 250 euro. Nel secondo, è prevista l’esenzione fiscale e contributiva per l’eventuale rimborso della spesa erogata dal datore di lavoro al dipendente. L’agevolazione deve, però, essere riconosciuta alla generalità o a particolari categorie di dipendenti, a prescindere poi dal fatto che ne usufruiscano tutti o solo alcuni. Quali sono le altre condizioni?

La legge di Bilancio 2018, con due specifiche disposizioni, incentiva l’utilizzo di mezzi pubblici da parte dei lavoratori introducendo:

– la detrazione IRPEF delle spese per abbonamenti ai trasporti pubblici, anche se sostenute per i familiari fiscalmente a carico;

– la sottrazione, dalla determinazione del reddito imponibile, dell’eventuale rimborso della spesa per il trasporto pubblico, erogato dal datore di lavoro al dipendente.

Questa ultima previsione rientra nella disciplina della detassazione dei premi di risultatospettante ai lavoratori, anche dirigenti, che nell’anno precedente a quello di percezione del premio siano stati titolari di reddito di lavoro dipendente non superiore a 80.000 annui.

Si tratta dunque di una ulteriore opportunità che consente alle aziende di ridurre, anzi in questo caso azzerare, il cuneo fiscale. Sull’importo erogato a titolo di rimborso infatti non si applica la contribuzione imponibile né la tassazione in capo al lavoratore: il costo sostenuto dall’azienda è e rimane esattamente pari a quello percepito al netto dal lavoratore premiato.

Detraibilità a fini IRPEF

La legge di Bilancio 2018 prevede la detrazione IRPEF del 19% per le spese sostenute nel 2018 per gli abbonamenti al trasporto pubblico regionale ed interregionale, nella misura massima di 250 euro di spesa.

Ai fini della detrazione vale il principio di cassa, che costituisce il principio tipico in materia di oneri. La detrazione pertanto può essere calcolata sull’intera spesa sostenuta nel 2018, anche se l’abbonamento scade nel periodo d’imposta successivo. La detrazione spetta anche per le spese sostenute per i familiari a carico, fermo restando il limite complessivo di spesa di 250 euro.

Per abbonamento si intende un titolo di trasporto che consenta al titolare di poter effettuare un numero illimitato di viaggi, per più giorni, su un determinato percorso o sull’intera rete, in un periodo di tempo specificato.

Per fruire della detrazione è necessario conservare copia delle spese sostenute per gli abbonamenti, in modo che tali documenti siano visionabili da parte del Caf/professionista abilitato che predisporrà la dichiarazione e dai funzionari dell’Agenzia delle Entrate in caso di futuri controlli.

La detrazione è esercitabile da tutti i contribuenti, a condizione però che sussista la relativa capienza in termini di IRPEF e addizionali comunale e regionale.

Detassazione spese di abbonamento

La legge di Bilancio 2018 (l’art. 1, comma 28, lett. b) della Legge 27 dicembre 2017, n. 205) ha previsto, inoltre, la possibilità per il datore di lavoro di rimborsare al dipendente l’abbonamento al trasporto pubblico in completa esenzione sia fiscale che contributiva.

La nuova disposizione prevede che le somme erogate o rimborsate ai dipendenti da parte del datore di lavoro, o quelle da quest’ultimo direttamente sostenute, per l’acquisto di abbonamenti al trasporto pubblico locale, regionale ed interregionale del dipendente o dei suoi familiari fiscalmente a carico, non costituiscono reddito in capo al dipendente.

La disciplina in vigore prevede 3 diverse modalità di erogazione della misura premiale:

• pagamento diretto al fornitore del servizio di trasporto da parte del datore di lavoro

• erogazione di denaro al dipendente, a titolo di anticipazione sulla spesa da sostenere

• rimborso della spesa al dipendente.

In ogni caso deve essere conservata la documentazione probante l’utilizzo delle somme da parte del dipendente per le finalità per cui sono state corrisposte.

N.B. E’ irrilevante la circostanza che le somme erogate coprano o meno l’intero costo dell’abbonamento.

Non è necessaria la stipula di una apposita convenzione con il fornitore del servizio di trasporto. E’ richiesto, invece, che l’agevolazione sia distribuita alla generalità o a categorie di dipendenti, a prescindere poi dal fatto che ne usufruiscano tutti o solo alcuni. L’agevolazione è valida anche per gli abbonamenti utilizzati dai familiari indicati all’art. 12 del TUIR:

– il coniuge non legalmente ed effettivamente separato;

– i figli compresi quelli naturali riconosciuti;

– i figli adottivi e gli affidati;

– ogni altra persona indicata nell’art 433 c.c. che conviva con il contribuente o percepisca assegni alimentari non risultanti da provvedimenti giudiziari purché fiscalmente a carico del dipendente.

L’Agenzia delle Entrate ha specificato che sono compresi:

– abbonamenti per il trasporto pubblico locale;

– abbonamenti per il trasporto pubblico regionale;

– abbonamenti per il trasporto pubblico interregionale;

– rimborso spese per l’acquisto di tali abbonamenti;

– abbonamento destinato ad un familiare del dipendente a condizione che risulti fiscalmente a carico di quest’ultimo.

Rientra in tale categoria qualsiasi servizio di trasporto pubblico, a prescindere dal mezzo di trasporto utilizzato, che operi in modo continuativo o periodico con itinerari, orari, frequenze e tariffe prestabilite ( Agenzia delle Entrate, circolare n. 19/E del 07.03.2008).

Restano esclusi:

– i titoli di viaggio che abbiano una durata oraria, anche se superiore a quella giornaliera;

– le carte di trasporto integrate che includono anche servizi ulteriori rispetto a quelli di trasporto, quali ad esempio le carte turistiche che, oltre all’utilizzo dei mezzi di trasporto pubblici, consentono l’ingresso a musei o spettacoli.

È irrilevante se il riconoscimento da parte del datore di lavoro è volontario o in esecuzione di diposizioni di contratto, accordo o di regolamento aziendale. La misura incentivante in esame è fruibile dai soli lavoratori subordinati, inclusi i dirigenti, purchè nel rispetto dei limiti reddituali e di importo previsti dalla disciplina dei premi di risultato e previa la verifica del raggiungimento degli obiettivi prefissati nell’accordo aziendale depositato presso la DTL.

(Fonte IPSOA)

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